La piaga del precariato attanaglia tutti i settori. Pure quelli che sembrano immuni in cui, invece, si annidano situazioni capaci di creare degli autentici cortocircuiti da cui pare impossibile uscire. Anche nelle Università si contano decine di uomini e donne che spesso, dopo aver donato i migliori anni della loro vita al mondo accademico, si ritrovano con un cerino in mano. Fuori dalle aule per impedimenti vari e fuori dal mondo del lavoro che non vuole persone che hanno già superato gli “anta”. Un dossier del Miur del 2018, infatti, spiegò che il 56% del personale accademico è precario. All’epoca erano 63.244 persone inquadrate con un rapporto di lavoro non certo e duraturo. Un mondo sommerso in cui, come sempre accade, ci sono dei casi limite. Come quello di uno studioso salernitano, uno dei tanti precari degli Atenei che, superati i quarant’anni e dopo averne donati una ventina alla nostra Università, si ritrova in una condizione particolare: un “professore impossibile”, lontano dalle cattedre e in attesa di vedersi riconosciuti i suoi diritti.
Spiegare lo status di “professore impossibile” di quest’uomo non è semplice, tale è la concatenazione d’eventi spesso staccati ma comunque intrecciati tra loro. Si può partire dai più recenti. Dallo scorso 8 gennaio quando la sezione terza bis del Tar del Lazio (presidente Emiliano Raganella) ha pubblicato la sentenza con cui ha accolto il suo ricorso (presentato dagli avvocati Michele Bonetti e Santi Delia) contro il Ministero dell’Università e della Ricerca.
Il “professore impossibile”, infatti, era stato giudicato non idoneo al conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale a professore di seconda fascia nel suo settore di competenza. Una bocciatura arrivata in quanto la commissione giudicatrice ha ritenuto “carenti” le sue pubblicazioni. La motivazione a supporto del giudizio, però, è risultata insufficiente in quanto incentrata «sull’evocazione di una non particolare originalità nella metodologia e nei risultati», si legge nella sentenza.