“Nella pietà che non cede al rancore, Madre ho imparato l’amore”, cantava De Andrè nel suo “Testamento di Tito” al cospetto di Cristo crocifisso accanto ai due ladroni. È questo, probabilmente, il senso del lavoro quotidiano di Monica Amirante, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Salerno e coordinatrice nazionale dei magistrati di sorveglianza (Conams). Perché, dietro quelle sbarre dove è difficile restare umani, considera essenziale non perdere mai il senso profondo del concetto di Pietas nei confronti di chi, condannato e quindi ritenuto colpevole con sentenza, perde la libertà ma non per questo i suoi diritti fondamentali. E, in questa torrida estate segnata dai suicidi in carcere e dalle rivolte, ribadisce con forza la necessità di un cambio radicale di mentalità, a partire dalla società civile, rispetto alla detenzione e alle misure alternative. Più risorse, strutture di cura territoriali adeguate e multidisciplinari ma soprattutto la vera e piena applicazione dell’articolo 27 della Costituzione che, tra l’altro prevede espressamente che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
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