Il decreto legislativo approvato dal Consiglio dei Ministri che estende il divieto di pubblicazione a tutte le misure cautelari personali – dalla custodia in carcere fino all’interdizione dai pubblici uffici – non è solo una “norma bavaglio”; è piuttosto una legge liberticida, che reprime in maniera abnorme e contraddice uno dei principi tra i più caratterizzanti di un Paese democratico, quello della libertà di espressione. Un diritto costituzionalmente garantito (l’articolo 21 della Carta), secondo il quale “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
Un’informazione libera è la cartina di tornasole del livello di trasparenza nel rapporto tra il potere (in ogni sua espressione) e i cittadini che, a loro volta, hanno il diritto ad essere correttamente – e, aggiungo, compiutamente – informati. Ogni limitazione o, peggio, controllo attraverso la legislazione della libera manifestazione del pensiero, è di fatto una deriva autoritaria tipica dei regimi fascisti e comunisti, una negazione delle libertà civili.
Certo, ogni forma di libertà, anche quella della stampa, hai suoi limiti e doveri ben precisi. Tra questi quello della tutela della privacy delle persone e della loro onorabilità. E, ovviamente, la presunzione di innocenza, fino a sentenza definitiva. Ma si tratta di limiti per i quali – oltre alle già pesanti sanzioni previste dai Codici Penale e Civile – esistono per fortuna anche regole di buon senso prima che deontologiche.
Dunque, vietare per legge di riportare brani di una misura cautelare (atti noti all’indagato, si badi bene), o virgolettati di un’intercettazione telefonica o ambientale, che senso ha rispetto al diritto/dovere dei giornalisti di informare in maniera corretta i lettori, spiegando perché il giudice ha ritenuto di dover applicare (o negare) la misura del carcere o altro provvedimento a una persona indiziata di reato? Non è a garanzia dello stesso indagato che siano esplicite le ragioni del suo arresto o della sua sospensione dall’attività istituzionale o professionale per potersi adeguatamente difendere dinanzi all’autorità giudiziaria o reclamare di fronte all’opinione pubblica il suo sacrosanto diritto di replica a quelle accuse che, se celate o mal riportate, alimenterebbero solo il pregiudizio e la maldicenza nei suoi confronti?
Per oltre vent’anni ho lavorato come cronista di giudiziaria. Mi sono capitati tra le mani decine e decine di provvedimenti: dall’avviso di garanzia al sequestro, le ordinanze cautelari e le sentenze. E ho scritto fiumi d’inchiostro su quelle vicende, alcune minime, altre delicate ed estremamente complesse. Ma per tutte ho applicato la regola aurea del giornalismo: la “notizia”; chiedendomi prima di tutto: cosa può interessare al lettore e all’opinione pubblica di questi fatti e cosa è superfluo o, peggio, denigratorio? Cercando di tenere sempre ben distinte le figure dell’imputato/indagato dalla persona con una propria vita, una propria dignità, al di là del reato che veniva contestato. Senza mai usare la clava o guardare un accadimento di cronaca dal buco della serratura, come spesso purtroppo avveniva (e avviene) in alcuni resoconti giornalistici.
E questo perché, come si dice, “leggevo le carte”, verificavo, approfondivo, con tutti i limiti che i tempi di produzione della stampa imponevano.
Ecco, impedire ai giornalisti di leggere e pubblicare le “carte” non solo limiterà il diritto di cronaca, ma finirà per compromette il rapporto fiduciario giornalista-lettore, perché la cattiva interpretazione o il riassunto inadeguato di un passaggio di un’ordinanza potrà facilmente indurre in errore prima chi scrive e poi, inevitabilmente, chi legge.
E così si tornerà a prediligere e a pubblicare (per opportunismo o per scelta forzata) le famigerate “veline” dell’autorità giudiziaria, reintrodotte in pompa magna dalla riforma Cartabia (governo Draghi) e rafforzate dalle ultime iniziative legislative dell’esecutivo Meloni. Un’informazione, per dirla tutta, “ripulita” e censurata alla fonte, dunque di regime.
Un pessimo servizio al lettore/cittadino, un brutto segnale di decadimento della democrazia nel nostro Paese.