Il 25 aprile è la festa della Liberazione su cui è stato costruito l’intero edificio della nostra Costituzione. Sul portone di ingresso campeggiano le incisioni giustizia e pace, quali traguardi reali per la Costituzione materiale da attuare.
Quindi, innanzitutto, il 25 aprile è una grande giornata di pace perché in quella data non solo finì una guerra, ma si aprì una nuova pagina della storia d’Italia e della storia del mondo e la nostra nuova Repubblica prese inizio, dando corso ad un senso diverso di giustizia.
Dunque, il dovere della memoria. Non come un deposito dei fatti del passato, ma una sempre rinnovata scintilla per accendere il presente; sulla scorta di un felice paradosso: la memoria non è conservatrice, è sovversiva.
I nostri giovani fortunatamente non hanno conosciuto la Resistenza, ma con l’uso sapiente della memoria- festeggiando il 25 aprile- hanno però modo, ancora adesso, di comprendere da dove, da cosa e perché proviene la nostra Costituzione; di conseguenza capire l’importanza della celebrazione.
La Carta fondamentale nasce da una fuga dalla notte oscura del nazifascismo, nel patimento di un Paese occupato, calpestato da neri stivali. E contro «quella notte oscura» tanti italiani, anche appena, seppero scegliere la propria parte, lottando e sperando insieme.
Ma per che cosa avevano combattuto? Per un sogno: di pace e di giustizia, appunto, ritenendo che la pace fosse l’uomo e ogni uomo un fratello e, quindi, in definitiva, che la giustizia stessa fosse l’uomo, senza distinzioni.
Vi è da chiedersi cosa sarebbe oggi l’Italia senza Costituzione. Di fronte al riflesso, mai domo, di vecchi poteri, di vecchie idee, rinnovate minacce.
La Costituzione ha impedito spesso che il Paese tornasse indietro, ma la partita è ancora aperta ed in campo- il realismo impone di dirlo- si fronteggiano ancora le opposte squadre, per contendersi il primato della sfida all’insicurezza, alla paura, all’instabilità economica, da un lato con il protezionismo commerciale e dall’altro con le armi del populismo, del panpenalismo, e del giustizialismo.
Un po’ di memoria, allora, fa sempre bene. Alla giustizia e alla pace.
L’articolo 3 della Costituzione vuol dire che la Repubblica è lì per sostenere la società, per fare da supporto ai deboli, ai poveri, per portare sulle spalle i miseri, per prendere su di sé le esigenze, i bisogni, le speranze del popolo; e l’articolo 10 estende allo straniero questo farsi carico, quest’attenzione della Repubblica per l’uomo in difficoltà, a cominciare dal perseguitato, dall’esule, dallo straniero.
Ciò accadeva già quattromila anni fa nel Mediterraneo, prima ancora che si scrivesse addirittura a Bibbia, proprio in quei luoghi della Mesopotamia e del Medio Oriente che oggi l’Occidente ha messo a ferro e fuoco per esportarvi la sua democrazia.
In quelle antiche società la giustizia del re, cioè del potere di allora, consisteva nel far giustizia al povero, all’orfano, alla vedova, allo straniero, cioè nel compensare con la sua forza la debolezza del debole e con il suo potere l’impotenza degli oppressi; si trattava di un potere che si accorgeva di chi è curvo, di chi invoca riscatto.
L’articolo 11 della nostra Costituzione, invece, ripudia la guerra e dice che è compito della Repubblica, anche a scapito della sua sovranità, volgersi a costruire «un ordinamento di giustizia e di pace tra le nazioni».
Pure su tale aspetto, già tremila anni fa sulle rive del Mediterraneo, le profezie bibliche annunciavano che le lance sarebbero state tramutate in falci, che sarebbe stato spezzato l’arco di guerra e un popolo non si sarebbe più levato in armi contro un altro popolo.
Allora, che cosa vuol dire il 25 aprile, in Italia, nel Mediterraneo? Passare dalla globalizzazione dell’indifferenza, dell’inimicizia, della diseguaglianza alla globalizzazione della pace, dell’accoglienza senza esclusioni e della dignità umana fondata sul lavoro.
In Italia, venendo meno il lavoro, la Repubblica perde il suo fondamento (articolo 1 della Costituzione) e perciò la sua stabilità e la sicurezza del suo futuro; in Europa, l’Unione economica e monetaria perde il primo dei tre obiettivi fondamentali per cui è stata costituita e via via potenziata, ossia piena occupazione, progresso sociale e tutela e miglioramento della qualità dell’ambiente, come prevede l’articolo 3 del Trattato sull’Unione; nel mondo il sistema economico perde l’equilibrio dialettico tra capitale e lavoro, deprimendo fino a sopprimerlo il secondo fattore.
La resa in tal modo imposta a uno dei due protagonisti del conflitto capitale-lavoro, spinge la polarizzazione delle diseguaglianze fino agli estremi di una ricchezza detenuta da una decina di uomini pari a quella complessiva di 3,6 miliardi di persone sulla terra.
Per ristabilire gli equilibri e una società vivibile è necessario creare nuovo lavoro non uscendo dall’Europa, ma ammettendo il suo intervento tanto più ove lo stesso Trattato sul funzionamento dell’Unione europea all’articolo 107 ne prevede il ricorso allorché il tenore di vita sia anormalmente basso, oppure si abbia una grave forma di sottoccupazione.
Situazione che, indubbiamente, esiste in Italia- ad onta di ogni trionfalismo sulle disavventure della dignità- quando ci sono percentuali di persone che vivono in povertà assoluta e di esclusione, mentre la disoccupazione ha raggiunto livelli soprattutto giovanili ed in particolare al Sud di massima allerta. Ciò non è un semplice difetto della politica, ma un crimine, quello dell’indifferenza.
Sarebbe un modo unificante di procedere per abbattere muri ideologici e conflittuali e ritrovarsi intorno al tavolo della solidarietà e dell’eguaglianza, della pace e della giustizia. Sarebbe il modo di festeggiare degnamente la memoria del 25 aprile, perché anche il presente torni ad essere il secolo dei diritti, cosa sempre più messa in discussione visti i molteplici fallimenti sul piano internazionale.